Farmaco: la cura e il veleno
Se oggi diciamo farmaco, pensiamo a una compressa bianca che guarisce un dolore. Ma l’etimologia di questa parola è molto più antica — e molto più inquieta — di una semplice medicina.
Viene dal greco φάρμακον (phármakon), parola che significava tutto e il contrario di tutto: rimedio, veleno, pozione magica, incantesimo.
Per i Greci, il phármakon non era “buono” o “cattivo” in sé: era una forza, una sostanza capace di agire, di trasformare, di cambiare lo stato delle cose — del corpo, ma anche dell’anima o della città.
Un phármakon poteva guarire o distruggere, purificare o contaminare. Bastava la dose o l’intenzione a cambiare tutto.
Quando la parola passa in latino (pharmacum) e poi in italiano (farmaco), ne resta solo una parte: quella “buona”, medica, curativa.
Eppure, nel fondo della lingua, sopravvive il suo lato oscuro: ogni medicina è un potenziale veleno, ogni cura può generare dipendenza o danno.
È un dualismo che la nostra cultura cerca di dimenticare, ma che ritorna ogni volta che parliamo di effetti collaterali o di abuso di farmaci.
Il pharmakós: la cura fatta carne
Ma c’è un’altra storia nascosta nella stessa radice: φάρμακος (pharmakós).
Non è più una sostanza, ma una persona.
Ad Atene, durante le feste Targelie, la città sceglieva due individui — spesso poveri, deformi o marginali — e li offriva simbolicamente come sacrificio.
Li vestivano in modo ridicolo, li portavano in giro tra insulti e colpi, e alla fine li scacciavano oltre le mura.
Erano i capri espiatori della polis: “il male” veniva caricato su di loro, e la comunità si purificava.
Il pharmakós era, allo stesso tempo, sacro e maledetto.
Come il phármakon, conteneva la contraddizione: era ciò che salvava la città, ma anche ciò che la città doveva espellere per salvarsi.
Curava attraverso la violenza.

Dal rito al quotidiano: l’eredità del pharmakós
L’antropologo René Girard ha chiamato questo meccanismo violenza mimetica: quando un gruppo è in crisi, cerca un colpevole su cui riversare rabbia e paura.
Non importa che sia innocente: conta solo che sia diverso, vulnerabile, disponibile alla proiezione collettiva.
È il modo più antico — e più umano — per ritrovare coesione.
Il pharmakós di Atene vive ancora oggi.
Lo vediamo a scuola, in una chat di classe, quando un ragazzo viene isolato “perché è strano”.
Lo vediamo nei social, dove un gruppo si unisce per insultare un singolo.
Ogni volta che una comunità, piccola o grande, trova il proprio equilibrio scaricando la tensione su uno solo, quel meccanismo antico si ripete: il pharmakós è tra noi.
La doppia natura del farmaco
E così, farmaco e pharmakós ci raccontano la stessa verità:
la cura e il veleno, la salvezza e la colpa, non sono opposti. Sono due poli della stessa energia.
Il farmaco guarisce distruggendo; il pharmakós salva venendo distrutto.
Entrambi mostrano come la società — e la psiche — si fondino su una tensione tra purificazione e violenza, tra bisogno di guarire e paura del contagio.
Una domanda per noi
Forse la vera etimologia di farmaco non sta nei dizionari, ma in questa domanda:
quando cerchiamo qualcuno o qualcosa “che ci salvi”, non stiamo anche cercando qualcosa “da espellere”?
Il linguaggio lo ricorda meglio di noi: phármakon è tutto ciò che cura — proprio perché può anche avvelenare.


